Contatta l'Artista
La scelta di Massimo Botti è paesaggistico-figurativa: tele preferibilmente grandi, fastose icone di corte rinascimentale, scenografie teatrali, arazzi imperiali: oli ed acrilici i suoi strumenti.
Sappiamo che nel concetto di paesaggio è intrinseca la necessità di un soggetto percepente: esso infatti dipende dalle competenze e dalle capacità rappresentative dell’artista oltre che dall’estrosità delle cose.
Il gusto di Massimo Botti nasce dal dis-gusto: verso i confini del sensibile fenomenico; contro i margini troppo stretti della rappresentabilità. La sua pittura è innanzi tutto trasfigurazione, facoltà che sospende il senso e i limiti della quotidianità permettendo a chi guarda di calarsi in uno spazio “altro”: la geografia è visione intima capace di investire i luoghi di “sovrasensi” del tutto personali, di un inconfondibile sense of place.
Massimo Botti de-forma la realtà nel momento in cui cerca di conoscerla: se la pretesa oggettività naturalistica non convince, ma come di chi si limiti a descrivere la banalità prosaica del mondo, allo stesso tempo le audacie del surrealismo confondono. La Natura che egli ha in mente non si lascia ritrarre in pose orgiastiche, dionisiache; i prediletti attori del sublime tardo romantico non conoscono lascivie decadenti o hanno scordato la leggendaria Arcadia. Se è vero che Massimo Botti individua i suoi maestri nei grandi pittori di paesaggio, e che ammira Frederich e Turner, i metafisici e Boecklin, egli va però cercando un “ritorno alla natura” che si potrebbe definire rousseauniano, sembrando ispirarsi, appunto, alle tesi del grande filosofo illuminista.
Post romantico, dipinge quadri in cui è facile rinvenire la traccia del paesaggio dell’anima nelle cose: il sentimento plasmante sta tutto nel ricordo impossibile di luoghi che non potranno mai esistere e che pure sono vivi di suggestioni, come raffinate idee platoniche. Sfilando lungo la galleria notiamo che dove prima c’era solo natura poi sono apparsi padiglioni e castelli gotico moreschi, muti custodi di supposte cerimonie iniziatiche, di segreti e misteri: topografia e simbolo si intrecciano. Senza dubbio Massimo Botti ha dimostrato di essere un interprete precoce di quel gusto medievaleggiante ora così in voga e che è tipico del fantasy: la sua fantasia ha partorito qualcosa che il grande filologo e studioso di letteratura inglese medioevale e anglosassone, J. R.R. Tolkien, avrebbe forse giudicato eccellente scenario: solo Elfi, Hobbit, ed eteree fanciulle simili a Fate sarebbero capaci di muoversi a proprio agio in quelle ambientazioni fiabesche che possiedono il fascino ambiguo ed arcano dei luoghi magici.
A questo punto, per colui al quale tocchi il compito, descrivendone la poetica, di apporre un suggello ermeneutico all’altrui discorso, che cosa vogliono significare queste tele, e le emozioni che ne sgorgano, se non un disperato bisogno di restituire alla natura una supposta purezza originaria, un’innocenza perduta? I quadri tutti, senza eccezione, ci sembrano pervasi da una sottile vena di nostalgia per ideali e valori ormai decaduti. La contrapposizione che si crea tra mondo reale e mondo idealizzato marca in modo forte la differenza fra realtà e desiderio. Botti approfondisce, in sé e nei suoi simili, la cognizione di un dolore, nella speranza che un uomo diverso, migliore, possa risorgere se gli si offre un nuovo Eden.
L’evento che profetizza questa possibile ri-nascita è preconizzato in uno dei quadri-simbolo di Botti, dove nubi di luce sembrano scolpire l’utero materno di una Terra ancora fertile: un grande ventre zigrinato d’una dovizia di grappoli e grumoli grassi dal quale può discendere l’aurea fecondatrice dentro il mare amniotico, primordiale. La visione onirica incarcera questo pseudo-passato in una cornice di estrema eleganza: quella dipinta è l’alba del mondo ma dalla quale sono stati omessi sia purulenti microrganismi che squamosi dinosauri. Anche in altre opere scopriamo come le plaghe desertiche non siano sconvolte dal fuoco e dalle polveri, e quanto invece la terra resti limpida e incontaminata, spazzata dall’aria rarefatta, rinfrescata dalle acque sorgive, in sé compiuta e perfetta.
I proto-paesaggi di Massimo Botti non cessano mai di essere metafora pittorica di un sogno quasi ossessivo di purezza e virginale innocenza, sempre intrinsecamente unito a quello della bellezza. A volte in essi manca un senso di ricomposizione, quello in cui tout se tien, e al suo posto serpeggia l’inquietudine: dinnanzi alla rivelazione, all’epifania di certi spettacoli terrestri, un’anima in grado di meravigliarsi e di stupirsi di fronte al “bello naturale” si sente schiacciata da un eccesso, da un senso di sovrabbondanza che può essere avvertito come pericoloso, e dispensatore di esperienze di vuoto, di impotenza, di ineffabilità. Altrove invece la percezione estetica si pasce, vibra all’unisono con le forme, e i colori pervadono i sensi di languori e nostalgie, di malinconie ataviche. Estetico – può essere solo competenza dei sensi – è il dilagare dei rossi, dei verdi, degli azzurri: e le nuvole hanno pennellate che fremono, le acque profondità che la luce taglia di guizzi improvvisi. Astro del giorno e della notte, la luna riflette barbagli ed incantesimi la cui luminosità scolpisce l’argento e altri metalli nobili.
Gli uomini e i loro accidenti sono assenti e quegli edifici lontano che si intravedono sullo sfondo sono fabbriche di creature divine, di semidei, o di eroi del mito: di fronte alla bellezza eterna della natura, il mortale, corruttibile corpo degli uomini, appare superfluo. E’, di nuovo, l’inevitabile, l’incolpevole (?), perdita dell’innocenza, a rendere l’uomo irrapresentabile: non esiste viso che non rechi su di se le stimmate della vecchiaia o del peccato, e Massimo Botti ha troppo pudore per ritrarre un Gesù, una Madonna o dei Santi e si sente ridicolo ad inseguire gli eroi leggendari del mito o della storia patria. Ma l’ansia di cui soffre Botti è sicuramente di matrice religiosa, e fortemente intrisa delle manie tipiche del suo tempo, della sua epoca: lo stile fin du siècle , il millenarismo; il lessico della sostenibilità, che illustri la paura di un futuro che sembra rotolare, ormai consapevole, verso la catastrofe; la sensibilità ecologista; la spiritualità New Age.
In definitiva, ci sembra possieda caratteristiche ed attributi estremamente moderni: il disagio che Massimo Botti cerca di esorcizzare sulla tela. La ricerca esistenziale si placa solo momentaneamente nello sfogo pittorico, con pennellate teneramente ostinate e che sognano l’urgenza dell’incontro decisivo. Per non diventare “maniera” e quindi fossilizzare, questa pittura deve razionalizzarsi in Weltanschaung, deve restituire un significato al reale, o assegnargliene uno nuovo ed inedito, risemantizzando i suoi oggetti ed attribuendo alle relazioni nuove regole.
Perché se l’artista è vero, il talento non può sfuggire all’incontro con le ragioni intrinseche del proprio operare, alla descrizione intellettuale e concettuale del proprio fare-pensare. Per osare oltre il piacere estetico, per non sdilinquire la vena nella contemplazione-esaltazione della bellezza, si vorrebbe che Botti si cimentasse con la filosofia, con l’amore per la sapienza, - “poesia dell’intelligenza” fece Dante Alighieri nella terza cantica, il Paradiso – e non importa se, per un certo periodo di tempo, ciò potrebbe significare semplicemente misurarsi con le tecniche, studiare, e dialogare con il pensiero critico passato e presente.
Raffaella Zuccari*
Metamorfosi del Sublime
A prima vista i paesaggi di Massimo Botti sembrano facili da leggere. Infatti gli elementi costitutivi dei dipinti sono quelli che subito si identificano per quelli che sono: la montagna, l’acqua, la pianura, il cielo. La pittura figurativa ci dimostra un mondo dominato da una natura abbondante ed enigmatica. Sono scene selvatiche di montagna, di bosco, di vaste ed oscure pianure, di mari mai visti dalle prospettive oscure che si perdono nell’immensità di un infinito sconosciuto sopra il quale si sviluppano cieli drammatici. L’esistenza umana in queste scene surreali si manifesta solo mediante scarse architetture arcaiche, come se fossero parte di un sogno inquietante, in cui le testimonianze pre-istoriche non sono che un ricordo lontano. La luce surreale che si stende sui monti, sui laghi e sulle vaste architetture di nubi richiama quella dei paesaggi metafisici e affonda le proprie radici nella pittura tardo-romantica di Arnold Böcklin.
Massimo Botti, infatti, evoca dalla tradizione romantica il paesaggio del Sublime, l’orrore brusco dell’uomo davanti ad un’immensa natura inconcepibile ed enigmatica che riduce, irrisoria, ogni tentativo di dominarla. Il Sublime nel paesaggio di Massimo Botti però costituisce meno un confronto diretto con la natura reale che la metamorfosi del sublime romantico in una qualità psichica. L’enigma inquietante del paesaggio presentato potrebbe facilmente farci immaginare quello dei paesaggi sconosciuti che si vivono nei sogni. Sono paesaggi dell’inconscio attraverso i quali l’anima viaggia ricordandosi i cammini della vita alla ricerca di serenità. Massimo Botti però non intraprende nessun tentativo di rivelare l’enigma universale che si nasconde nei suoi paesaggi, non offre allo spettatore nessuna spiegazione o soluzione, ma lo invita al viaggio nei lontani paesi della propria psiche che lo porterà sia in zone oscure ed inquietanti che in bellissimi campi quieti ed idillici. I dipinti dell’artista nascono come viaggi pittorici nello sconosciuto. Il pittore sovrappone uno strato di colore sopra l’altro, fin quando si chiariscono le forme naturali e si rivelano le composizioni delle sceneggiature. E’ una pittura vissuta in ogni pennellata che cerca e trova un viaggio anche questo. L’artista riflette con i suoi paesaggi una delle principali domande dell’individuo moderno, quella della percezione del mondo sotto l’aspetto inquieto della sua frattura.
Beatrice Westphal*
Frammento romantico rivisitato *
Busoni afferma che “In musica tutto è trascrizione”, che senz’altro potrebbe anche essere inteso come tutto nella musica è variazione sul tema. Giusto forse, come nella scrittura, tutto è citazione, oppure come nella pittura, tutto è riferimento, richiamo, riproduzione, menzione, insomma variazione, più o meno concettuale o oggettiva sul tema, o su uno stile, se non su un’epoca segnata da un determinato stile artistico o pensiero filosofico.
Come non pensare, dunque, al Romanticismo ed in particolare a quel tardo Romanticismo, all’idealismo di Fichte, di Schlegel, di Caspar David Friedrich, Füssli e forse anche ai Nazareni tedeschi e ai puristi italiani. E perché non pensare al David francese, pittore sempre legato all’imitazione dell’antichità classica e alla continua ricerca del “bello ideale”; fondamentali elementi del Romanticismo, e allo spagnolo Goya, formidabile precorritore del Romanticismo ottocentesco?
E mentre l’uno ha come modello la grecità idealizzata e la romanità, l’altro esalta l’idea e la realtà, anticipando chiaramente lo spirito dell’idealismo nel clima artistico culturale europeo e che trova in Germania il suo terreno più fertile.
Il pensiero romantico è caratterizzato anche nella polemica contro tutto ciò che è meccanico e artificiale logica del progresso moderno e per l’idealizzazione nostalgica dei rapporti sociali pre-moderni…
Ed è questo, forse, il punto dove è possibile trovare un valido aggancio al lavoro del giovane Botti (e quello del suo maestro Luigi Frappi, prima).
Il rifiuto dell’artificiale moderno!
La ricerca di qualcosa in cui poter credere. Un altro elemento essenziale che caratterizza il Romanticismo. La rivalutazione della fede è la vera essenza innovatrice e originale delle tesi romantiche; l’esaltazione degli aspetti irrazionali, mistici e magici della vita.
Botti ha scelto, (così sembra) la natura che meglio gli avrebbe acconsentito l’accesso alla libera espressione della propria creatività soggettiva, cioè un substrato di una brillante tecnica, quindi per mettere in luce ciò che è luce; cielo-luce, terra-ombra. Il suo paesaggio assume forme di celebrazioni romantiche (fichtiane), intese come nostalgia dell’infinito nel finito della totalità nella parte del divino nella natura, di cui uno degli strumenti essenziali è “l’intuizione”.
Il paesaggio dunque, è il suo tema costante. E’ però assente (per scelta?) la componente più importante nell’estetica romantica: l’idealismo dell’uomo che si ritrova già nella cultura settecentesca, quindi nello Sturm und Drang. Da ciò si potrebbe desumere che il Botti aspira all’assoluta libertà del pennello, alla forma realistica idealizzata (tutto a vantaggio della pittura), più che all’essenza del pensiero romantico.
E questo in uno spazio temporale in cui (apparentemente) non c’è spazio per un nuovo Romanticismo.
*Uno storico dell’arte una volta ha detto che non si può esprimere un giudizio su un uomo se non lo si conosce da molto tempo. Tutto ciò che è stato detto sopra è intuizione, supposizione, citazione, e forse un po’ di esperienza, ma non certezza.
Alfred Hohenegger